Regia: Paul Thomas Anderson. Sceneggiatura: Thomas Pynchon, Paul Thomas Anderson. Fotografia: Michael Bauman. Montaggio:
Andy Jurgensen. Scenografia: Florencia Martin. Musiche: Jonny Greenwood. Costumi: Colleen Atwood. Interpreti: Leonardo DiCaprio, Sean Penn, Benicio Del Toro, Regina Hall, Teyana Taylor, Chase Infiniti, Wood Harris, Alana Haim, D.W. Moffett. Produttori: Sara Murphy, Pete Chiappetta. Distribuzione: Warner Bros Italia . Origine: U.S.A., 2025.
Bob Ferguson, rivoluzionario in pensione, ha esploso tutti i suoi colpi nella giovinezza, sognando un mondo migliore al confine tra Messico e USA. Appeso al chiodo l'artiglieria e il nome di battaglia, Ghetto Pat, fa il padre a tempo pieno di Willa, adolescente esperta di arti marziali. Tra una canna e un rimorso prova a proteggerla dal suo passato che puntualmente bussa alla porta e chiede il conto. Dall'ombra riemerge un vecchio nemico, il colonnello Lockjaw, che più di ogni altra cosa vuole integrare un movimento suprematista devoto a San Nicola. Ma Bob e Willa sono un ostacolo alla sua ambizione. Lockjaw rapisce Willa e Bob riprende il fucile.
Paul Thomas Anderson è l'immagine del suo Paese: un ego smisurato alimentato da un'immaginazione senza limiti. Un genio che torna tenacemente alla misteriosa fonte che lo distingue dalla maggioranza dei suoi colleghi: l'ispirazione. E a ispirarlo è di nuovo una delle grandi leggende invisibili della letteratura americana (l'altra è Salinger), il più inadattabile tra gli inadattabili, Thomas Pynchon e il suo romanzo, "Vineland". Adattamento libero perché dopo Vizio di forma, Anderson sa bene che è impossibile restituirlo, restituire un'opera letteraria indefinibile, considerata una delle più importanti del XX secolo e oggetto di una moltitudine di studi che ha imbarcato gli scaffali delle biblioteche americane.
Cercare di analizzare l'opera di Pynchon è come indossare una vestaglia al contrario, è quello che fa uno dei suoi personaggi. Figuriamoci tradurla in immagini, ridurre a dimensione ragionevole le teorie, i riferimenti scientifici, la manipolazione romanzesca della storia, le riflessioni sulla decadenza, le singolarità erotiche, la genealogia, l'erudizione vertiginosa, le invenzioni deliranti, i discorsi anticapitalisti... Ci ha messo almeno quattro anni Anderson per farne il suo 'grande romanzo americano', un film corrosivo che affronta l'utopia libertaria e la rivoluzione conservatrice attraverso il viaggio del suo eroe anti-establishment: un padre paranoico e smarrito che intraprende una ricerca personale cercando la figlia rapita.
Se il materiale originale va e viene tra la rielezione di Ronald Reagan e gli anni Sessanta/Settanta, Una battaglia dopo l'altra avanza fino agli anni Venti, sotto una probabile presidenza Trump anche se il suo nome non viene mai menzionato. In questo senso, Una battaglia dopo l'altra porta bene il suo titolo: non è un film 'moderno' e forse nemmeno 'attuale', è un film sulle rivoluzioni familiari, politiche, sociali. Anderson mette in evidenza un cambiamento di paradigma generazionale e identitario in un mondo sull'orlo del baratro e in un Paese sempre più autoritario, ma dove continuano a rinascere proteste salutari, necessarie e vitali. Inventa una visione poetica della storia degli Stati Uniti, un cortocircuito temporale che mescola passato e presente, La battaglia di Algeri e Black Lives Matter...
In questa commedia poliedrica, che oscilla tra dramma intimista e action movie senza interruzioni, i personaggi sono innumerevoli. Appaiono, scompaiono e ricompaiono, passandosi il testimone, urtandosi lungo il percorso, mescolandosi costantemente, contaminandosi a vicenda, in una storia frammentata e allucinata, posta sotto il segno del tradimento. Un cocktail esplosivo preparato da Anderson, bombarolo come Ferguson, con umorismo terribile per far emergere le componenti più folli di un'umanità che si sta perdendo in tutto lo spazio che lo schermo gli concede (VistaVision). Un formato scelto per contenere tutte le idee dell'autore. Questo fracasso narrativo, questa intelligente decostruzione del linguaggio e della sintassi, non è priva di effetti collaterali: trame e storie si intrecciano, si sovrappongono, si scontrano, lasciando lo spettatore stordito, come dopo un montante di Sonny Liston.
Convinto da sempre che la politica non si può filmare, Anderson ragiona magnificamente in termini di divertissement. L'umorismo fa parte della natura di Pynchon, l'umorismo serve a tenerci coinvolti, perché Una battaglia dopo l'altra non è un compito in sala sulla storia americana o sul fallimento di tutte le rivoluzioni. Chi vorrebbe vedere un dramma su questo soggetto? E allora l'autore dà fondo alla sua prodigiosa abilità romanzesca e formale per abbattere muri con la fantasia di Bugs Bunny e l'idealismo di Don Quichotte. Soffiando sulla rivalità dei suoi protagonisti, lo aveva già fatto con Il petroliere e The Master, organizza un incontro di box tra due padri (della nazione) che hanno tanto da guadagnare e da perdere. Il risultato è sontuoso, una commedia d'azione lanciata sui battiti accentati di Jonny Greenwood e sui dossi di un tratto stradale da qualche parte tra California e Arizona.
È su quella "river of hills" che culmina e termina il percorso dei suoi eroi stonati, è su quell'asfalto bruciato dal sole che Anderson reinventa quello che William Friedkin considerava la forma cinematografica più pura: l'inseguimento. Meticolosamente coreografata, la corsa tra due e poi tre vetture stupisce per la leggibilità dell'azione. Anderson piega il bitume come sole implacabile, infilando folgoranti via di fuga e invadendo tutto lo spazio, grande tema della letteratura americana. Ma anche qui dobbiamo concordare sui termini, perché a questo giro PTA distorce le topografie. Agrimensore indocile, misura nuovi territori, apre botole, esplora reti sotterranee, spalanca conventi e chiese, sale sui tetti, striscia sulla sabbia, deflagra i confini dove aleggiano le chimere politiche e le cospirazioni. La sua traiettoria è coerente - i suoi film tracciano una coscienza della storia degli Stati Uniti - e prosegue il viaggio in un Paese diviso tra ingegnosità e spazzatura. Anderson non ama i grandi momenti di celebrazione o i film biografici, The Master, atteso come il biopic sul fondatore di Scientology L. Ron Hubbard, non lo è davvero. È nella sua trilogia informale (Il petroliere, The Master, Vizio di forma), a cui sommiamo Una battaglia dopo l'altra, che l'autore cattura sistematicamente e in epoche diverse le nevrosi dell'individuo (individualista), dell'americano tipo, attraverso coppie di personaggi in ritardo o in sintonia coi tempi, legati inesorabilmente da una relazione paterna (Bob -Willa) o sadomasochista (Bob- Lockjaw).
Se ogni fine dei tempi chiama il suo messia, lo stupefacente Bob (Leonardo DiCaprio) non può impedire alla giovane Willa (Chase Infiniti) di riaccendere la fiamma della rivoluzione per distruggere il vecchio mondo e magari autodistruggersi. Sul versante 'cattivi padri della nazione', il post hippy deve invece fare i conti col colonnello di Sean Penn e la sua 'eredità', divenuta sinistra, cavillosa, corrotta. Lo zenith di Bob è passato, la luce non risplende più, è alterata, ridotta dagli occhiali da sole che DiCaprio infila come all'indomani di una notte difficile. Dentro una vecchia vestaglia da 'drugo' cerca di costruire qualcosa a pezzi, affiancato da un maestro di sopravvivenza, un Benicio del Toro lunare e in equilibrio zen come nel cinema dell'altro Anderson. Il divo ha perso la sua innocenza e compone con la sua brillante decadenza, quasi stupito di essere l'eroe del film. L'ex "re del mondo" ha lasciato la prua per il divano, soltanto una canna lo separa ormai dalla violenza e dall'assurdità del mondo che non ha cambiato. La potenza espressiva di Anderson è interamente al servizio dell'umanità dei suoi personaggi, osservati ancora una volta dalla sua California, dalla regione delle foreste di sequoie secolari e dei campi di marijuana, dal rifugio di ex hippie fumatori di marijuana, boscaioli anarcosindacalisti e pescatori di gamberi.
La forma, qui più offensiva e meno rotonda di Licorice Pizza, sposa comunque l'amore e si getta completamente nella vita. Per questo Una battaglia dopo l'altra è un grande film politico e un grande coup de coeur. È l'arte di diventare padre, integrando il passato per prepararsi meglio al futuro. Ma è pure il suo contrario, l'arte di fare la guerra ai propri figli in un clima di ansia e di collera balorda, incarnata da Sean Penn che trova col 'passo' la centratura del suo personaggio e l'illogica superiorità della razza bianca. La sua performance sfida ogni spiegazione razionale per raggiungere una forma di distanziamento satirico. Il brutale scontro tra i processi formali di interiorizzazione e la recitazione enfatica e (volontariamente) tronfia rende problematico qualsiasi tentativo di identificazione con lui. Tra Penn e DiCaprio, Infiniti è l'America da reinventare, la figura travolgente, la figlia a prova di test, la nipote di utopistici combattenti che promettevano un mondo migliore. Ma Anderson non coltiva la nostalgia e concentra il precipitato di un Paese marcio e inebetito. Un terreno fertile per il sogno di Willa, sulla soglia della porta e di un'epoca. Malgrado tutto sarebbe bello avere sedici anni
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