Regia: Jean-Paul Salomè Sceneggiatura: Jean-Baptiste Dupont, Hannelore Cayre. Fotografia: Julien Hirsch. Montaggio: Valerie Deseine. Musica: Bruno Coulais. Scenografie: Francoise Dupertuis. Costumi: Maritè Coutard.
Interpreti: Isabelle Huppert, Hippolyte Girardot, Farida Ouchani, Liliane Rovere, Iris Bry, Kamel Guenfoud, Marcelo De Souza, Pierre Rousselet, Youssef Sahraoui.
Produttore: Kristina Larsen. Distribuzione: I Wonder Pictures. Origine: Francia, 2019.
Il reparto antidroga della polizia di Parigi indaga con zelo sulle partite di hashish che entrano nella capitale, e per farlo si affida al lavoro di traduzione di Patience, abilissima a intercettare le comunicazioni in arabo dei trafficanti. Cresciuta in giro per il mondo grazie alla madre, ora malata in una casa di cura, Patience soffre la noia e la fatica. Quando un giorno riconosce la voce della badante della madre in una delle intercettazioni, si adopera istintivamente per aiutare il figlio della donna. La partita di droga da lui trasportata svanisce all'improvviso sotto il naso di Philippe, investigatore di polizia che ha una relazione con Patience, e l'insospettabile traduttrice la recupera decidendo di mettersi in affari. Il cittadino modello che decide di reinventarsi fuorilegge produce, al cinema come in TV, una tensione sempre uguale: da un lato occorre necessariamente dissacrare le strutture del poliziesco perché il personaggio ne è una presa in giro vivente; dall'altro c'è bisogno che la sua ascesa abbia un'anima seria per legittimarla. Breaking Bad ci riusciva alimentato da una spietata critica alla mascolinità, e La padrina ne è un piacevole contraltare europeo e al femminile, appena abbozzato nella sua giocosa nonchalance ma sorprendentemente ricco.
Siamo dalle parti dell'orpello letterario, e del resto il film è tratto da un romanzo di Hannelore Cayre che cura anche la sceneggiatura. Tutto bacia e combacia, nella storia di Patience che non vuole aspettare (di finire come la sua mamma, di tornare sulla barca con il papà). Rime interne di scrittura che si fanno eco ritmato, tra arguti dialoghi da camera e anche, effettivamente, complesse sequenze di scambi, spionaggi e inseguimenti. Più che un underworld popolato di tagliagole, questa Parigi che corre tra Belleville e Barbés é una riappropriazione dello spazio borghese, dal supermercato al cinema. Huppert la percorre senza mai inciampare, nonostante si trascini dietro un cane poliziotto adottato, valigie piene di droga e un travestimento da misteriosa signora araba.
La chiamano "la daronne", sospira un giorno il buon Philippe, compagno di vita possibile e uomo di legge integerrimo che non sa più che pesci pigliare. Ma è l'ennesima etichetta che a Patience non sta bene: non di donna anziana, piuttosto di una madre o una signora distinta, di certo qualcuno sopra i trent'anni. Definizioni troppo generiche per qualcuno che si è scoperto genio criminale più come ricerca di identità che per reale bisogno economico.
Formidabile e sfuggente, la padrina sfrutta le ambiguità della traduzione per creare nuovi personaggi e realtà alternative, mettendosi in tasca il tragitto emozionale tra le lingue di partenza e di arrivo. Così facendo diventa non soltanto esso stesso un riuscito esempio di traduzione tra i generi cinematografici, ma un elemento di un discorso aperto nella filmografia recente di Isabelle Huppert, incastrandosi alla perfezione tra Elle, Frankie, Le cose che verranno ed Eva. Una galleria di donne in transito che la diva francese sa rendere enigmatiche al mondo ancor più che a se stesse.
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