Regia: Pupi Avati. Sceneggiatura: Pupi Avati, Tommaso Avati. Montaggio: Luigi Capalbo. Fotografia: Blasco Giurato. Musica: Raphael Gualazzi. Costumi: Beatrice Giannini. Scenografia: Marinella Perrotta.
Interpreti: Sharon Stone, Riccardo Scamarcio, Cristiana Capotondi, Giovanna Ralli, Tiziana uldini, Christian Stelluti, Ascanio Balbo, Guia Zapponi, Viola Graziosi, Alessia Fabiani.
Produttore: Antonio Avati.
Distribuzione: 01 Distribution.
Origine: Italia, 2014.
Durata: 95’
Un ragazzo d’oro è la regia cinematografica numero 39 per il regista bolognese classe ’38, ex jazzista recentemente in cameo come uno dei poteri forti italiani in Benvenuto Presidente! di Riccardo Milani. Il suo film ha un potere forte? Assolutamente sì. È l’ennesima e coinvolgente storia di donne fatali, famiglie letali e uomini poco leali per questo eclettico cantore dell’amarezza e sconfitta maschile.
Dopo un flashback con gara atletica agreste (salto in alto), facciamo subito la conoscenza di Davide Bias (Riccardo Scamarcio), pubblicitario con ambizioni letterarie in grado di contare i passi tra sé e un suo importante appuntamento confidando i propri pensieri a un iPhone come faceva l’agente Cooper di Twin Peaks con la fantomatica Diane (lui usava un registratore).
I racconti di Davide vengono rifiutati dall’ennesimo editore, il quale gli suggerisce di scrivere un romanzo. Ma lui non ce la fa. E’ un salto troppo in alto. E poi: “Se avessi scritto Sotto il vulcano… non sarei certamente qui”. Non è un simpaticone il nostro Davide. Quello che ci piace subito del suo personaggio è che è un perdente dal bruttissimo carattere. Avati e Scamarcio sono molto originali e sofisticati nel crearlo con una dizione snob, quella puzza sotto il naso fastidiosa nei confronti del passato da cinematografaro pop del papà, una insistita retorica (“Io ho chiuso con la scrittura!”) e il piacere tipico dei frustrati di naufragare nell’autocommiserazione sfruttando vigliaccamente “quel rapporto orrendo” col papà per giustificare ogni fallimento.
Scamarcio è bravissimo. Dopo averlo visto con piacere in un ruolo comico accanto a Ninetto Davoli in Pasolini di Abel Ferrara, eccolo perfetto nei panni del bilioso Bias, il cui nome ha un etimo che ci riconduce a concetti di obliquità e inclinazione e la cui stanza da giovincello vede proprio una foto di Pasolini giganteggiare al centro. Suo papà Achille, invece, teneva appeso nello studio Alvaro Vitali. La morte del genitore sceneggiatore di commediacce italiane (si vedrà uno scampolo di Dove vai se il vizietto non ce l’hai? di Marino Girolami come esempio dei film cui lavorava Bias Senior), precipitato a tutta velocità in un burrone dei Castelli romani come in Toby Dammit di Fellini, costringerà Davide a trasferirsi dalla controllata Milano alla decadente Roma.
Tornerà nella casa d’infanzia (e qui la musica e le porte a vetri e ogni singolo oggetto richiamano all’horror della magione maledetta) per cominciare, da figlio, un viaggio nel passato del padre estremamente pericoloso. Sia perché la via è disseminata di strumenti perfetti per perdere l’identità (come succede al protagonista de L’inquilino del terzo piano di Polanski), sia perché dietro l’angolo c’è un pericoloso sentimento in grado di spazzare via anni e anni di risentimento.
E poi c’è anche Sharon Stone pronta a prenderlo per mano…